Inter e Milan, un destino comune
Della Superlega se ne parla da decenni. Persino alla fine degli anni ’80 le tre grandi del calcio italiano annunciavano l’intenzione di creare una lega dal grande appeal mediatico e sportivo. Le idee in ballo erano accattivanti, ma il passo dall’idealizzazione alla creazione può fluttuare nel vuoto del dissenso di chi quel mondo lo condivide con te. Proprio il dissenso comune è stato ciò che ha convinto Inter e Milan a fare un passo indietro.
I nerazzurri credono nell’innovazione e nell’inclusione che – come si legge dal comunicato ufficiale – “fa parte del nostro DNA”, ma per farlo ci vogliono le giuste garanzie e una di queste è il fulcro che tiene in piedi il movimento: la passione dei tifosi. Dello stesso avviso il Milan, da sempre eterna rivale, che in questa occasione mette in stand-by il progresso per abbracciare “la voce e le preoccupazioni dei tifosi”.
Juventus, la bontà del progetto
La Superlega è stato un progetto sgonfiatosi come una proverbiale bolla di sapone: l’annuncio in fretta e furia pubblicato domenica in tarda serata, la sommossa popolare scoppiata il giorno successivo – con i progressivi forfait dei club – e l’abbandono anche delle italiane. Il presidente della Juventus Andrea Agnelli in questo progetto credeva e crede ancora molto. Lo hanno dimostrato mettendoci la faccia, assumendosi le responsabilità dei rischi che questa scelta rivoluzionaria portava con sé. Lo ha fatto in compagnia di Florentino Perez e il Real Madrid, provando a coinvolgere le altre big del panorama europeo. La realtà dei fatti, però, resta sempre incontrovertibile e, quando il dissenso diventa fattuale, devi alzare le mani in segno di resa. Lo si evince dall’intervista a Reuters, ove le sue parole risultano lapalissiane: “Resto convinto della bontà del progetto, ma non si può fare un torneo a sei squadre”. Alle parole di Agnelli fa eco il comunicato ufficiale della Juventus, pubblicato sul sito bianconero, che non lascia intravedere nessun spiraglio di soluzioni concrete nel futuro immediato. Si conclude così il primo atto di una guerra alla Uefa, con buona pace di chi difende a spada tratta quei valori di uno sport che – forse non così lentamente – opera la transizione in modello di business a tutti gli effetti.